In ricordo della mia visita al museo

Anni fa ci fu un’altra apertura straordinaria serale, io e Paolo arrivammo alle 22, circa, era estate e fuori faceva caldo. Era buio, eccetto pochi lampioni giallognoli. Varcammo la soglia dell’ingresso con passo lento, quasi come se stessimo violando un rito di commiato. L’ingresso era ben illuminato, di quella luce che stordisce i nervi oculari nel passaggio alla penombra, provocando lo smarrimento dell’ignoto. In silenzio ci avvicinammo al bancone per prendere i nostri biglietti. Volti sorridenti (quasi uno stridore rispetto al mio stato d’animo grave) ci illustrarono il percorso che ci attendeva oltre la vetrata di una porta a spinta dalla quale, incredibilmente, non si intravedeva nulla, per uno strano gioco di riflessi e luci. Non sapevamo cosa avremmo trovato o, meglio, lo sapevamo ma la conoscenza dei sensi, dopo, ci raccontò una storia diversa da quella conosciuta sugli opuscoli.

Oltrepassata la porta di vetro entrammo in una zona di completa ombra, ovattata, carica di echi, in cui facevamo fatica a riconoscere noi stessi, che provenivamo dall’atrio ben illuminato. Piccolissime lucciole apparvero sull’iride, in realtà aleggiavano nello spazio che si apriva davanti a noi, erano 81, per la precisione, ma ancora non avevano la forza di mostrare il relitto. Molto lentamente quelle piccole luci amplificarono la loro intensità, allargandosi come il flusso di un respiro, restituendo alla vista lo scheletro del DC9, possentemente piantato in una arena della memoria. Enormi casse di legno scuro ai margini, a custodire gli oggetti rinvenuti in mare, posti a dimora del “sarcofago”, come in una antica tomba, a corredo del viaggio terreno cessato.

Quella immagine prima di colpire gli occhi, arrivò allo stomaco, con la violenza di un pugno, e poi al volto, con l’energia di uno schiaffo. Nell’apnea dello stupore di nuovo le luci si affievolirono, fin quasi a spegnersi, ma mai del tutto. Quelle 81 lampadine sospese nello spazio, scandiscono quotidianamente il ritmo di quei respiri spezzati. Una installazione semplice e potente, che restituisce immediatamente il peso di quelle esistenze, spazzate da questa vita terrena, ma non del tutto spente.

Un po’ alla volta arrivarono alle orecchie sussurri lontani, leggeri come un soffio. Un secondo respiro che dava forza e sostegno a quelle lucciole intermittenti. 81 specchi neri su tutto il perimetro che circondava il relitto, tesi a sussurrare pensieri assolutamente ordinari che ognuno di noi, che ognuna di quelle vittime innocenti, avrebbe potuto pronunciare fino all’istante dell’imprevedibile impatto. Il riflesso di sé in quei riquadri portò ai sensi la nuda atrocità del destino, che quel giorno pretese il sacrificio di 81 anime qualsiasi. Non soldati, non bersagli prestabiliti, ma 81 persone che si trovarono ingabbiate nella morsa di un insensato atto di guerra.

Prima di muovere un passo trascorsero diversi secondi, forse minuti. Non so, ricordo solo un tempo sospeso, uno stordimento inaudito. Mi sentivo gelata, immobile nel turbinio dei pensieri, cercai la mano di Paolo.

Lo scheletro del DC9 era lì, sapientemente ricostruito da mani che hanno saputo prendersene cura, tassello dopo tassello, come un mosaico di cui, però, alla fine non si ammira la bellezza, ma la crudeltà della verità violenta di cui porta i segni.

Quell’aereo è stato colpito mentre sorvolava il cielo di Ustica, le sue lamiere raccontano ancora oggi quell’atto di guerra, in tempo di pace, su cui chiediamo piena verità. Piena verità, ancora e ancora. Un altro mosaico da comporre, la cui cura è affidata a noi tutti, ed è per questo che occorre andare a visitare il museo di Ustica, perché quel luogo sacro (che ho visitato più volte da allora) è una “cosa” viva e vitale, porta in seno 81 respiri, che no, non vogliono spegnersi.

Hilde