Alessandra Nardon
Non è tempo di partenze ma di ritorni con la mente a quei luoghi dello spirito, alle situazioni che hanno toccato il nostro sentire. Posti che ci hanno sfiorato l’anima, luoghi che si ricordano.
È capitato proprio poco prima di questa chiusura che ci ha atomizzati nel nostro orizzonte individuale. Una visita non programmata, suggerita da una conversazione occasionale, una di quelle circostanze che se le vai a cercare non le trovi ma sembrano capitate così, in maniera spontanea, e che solo dopo essere state accolte si sistemano nel nostro “orizzonte” e trovano senso.
A Bologna c’è un luogo che conserva in maniera fisica e tangibile la memoria del disastro del DC-9 Itavia, precipitato al largo di Ustica quaranta anni fa, il 27 giugno 1980. Lo ricorda in maniera fisica e tangibile ma anche sensoriale ed emotiva per ciò che viene là dentro rievocato.
I resti dell’aereo, lamiere accartocciate e parti di esso, sono stati recuperati e riassemblati secondo la forma originaria nella vecchia sede tranviaria cittadina, un impressionante relitto al centro degli ex magazzini sventrati e ricostruiti rispettandone l’impianto originale. Quei resti, scarni, essenziali eppure ancora così vivi e pulsanti, sono la prima cosa che colpisce entrando nell’edificio. Subito però si viene attratti da sussurri: sono le voci, le piccole cose che si immagina i passeggeri si stessero raccontando durante il viaggio. Cosa si dicono quei sussurri? Cosa ci raccontano? Frammenti… schegge di vita… storie comuni di vacanzieri spensierati, ignari, di persone che eventi più grandi hanno assorbito e annullato. Così come avviene sempre quando la storia “grande” inghiottisce e annulla le storie quotidiane dei tanti che da essa vengono portati via.
La vista, catturata all’inizio dal grande relitto, viene nuovamente orientata verso un’altra suggestione: dal soffitto pendono ottantuno lampadine che alternativamente si affievoliscono fino a spegnersi, come le vite di quelle ottantuno persone che volavano sull’aereo.
Oltre ai resti dell’aereo, infatti, il Museo per la Memoria di Ustica accoglie una installazione dell’artista Christian Boltanski che, nella scelta delle soluzioni, si è dimostrato particolarmente sensibile. Boltanski, infatti, nel rispetto delle vittime, ha preferito non far vedere gli oggetti personali che sono stati ritrovati nelle stive in fondo al mare, li ha nascosti alla vista che la curiosità rende spesso poco pietosa: essi sono dentro nove casse nere sistemate attorno al relitto, nere come neri sono gli specchi da cui provengono le voci che simulano quelle dei passeggeri.
Il messaggio è chiaro: per la nostra cultura occidentale il nero è il colore del lutto, di chi è scomparso, ma è anche il simbolo di ciò che non è chiaro, di ciò che sa di torbido e misterioso.
Il Museo per la Memoria di Ustica, se non restituisce un senso all’evento, consola con la forza del ricordo.
Così, sarà anche per questo tempo di piccole storie che si incrociano e vengono assorbite dagli eventi più grandi: quando se ne potrà parlare lontani dall’urgenza del momento, se non si troverà un senso sarà necessario non venir sommersi dalla dimenticanza, dando al ricordo la forza consolatoria che ci permette di andare avanti.